Alessandro Finocchiaro
"L’arte, oggi forse più che mai, è un percorso rizomatico, spesso ellittico nelle dinamiche del figurabile. Essa nasce da altra arte e spesso sono smarriti i legami con la natura. A complicare la questione qui è anche il tema della mostra: la notte, quindi, romanticamente, l’oscurità e il mistero. Alla natura Stefania Orrù e Cetty Previtera si riallacciano attraverso una pratica che affonda le radici in una pittura di materia, le cui stratificazioni da un lato fanno perdere la relazione col visibile e dall’altro la reinventano attraverso un tessuto fitto di colori e iridescenze. Si può pensare anche ai cieli di Anselm Kiefer. Il titolo, scelto da Peppe Cona per questa mostra negli spazi di Scalamatrice 33, è preso da un libro di Claudio Marucchi. Per il loro “inno a occhi socchiusi”, così continua lo stesso titolo del libro citato, Cetty e Stefania utilizzano tecniche pittoriche diverse: prevalentemente l’olio Cetty, Orrù terre e ossidi, su una base di scagliola e polvere di marmo. Una natura organica e pulviscolare è cantata sommessamente nei lavori di Stefania,
“Il giardino nascosto” e “I fiori e la notte” mi sembrano due quadri esemplari, dove la qualità del colore si nutre di una dimensione alchemica. In “Il funambolo” scorgiamo un bagliore rosso, forse una figurina su un’immensa rupe. ”Come le stelle”, “Nel blu”, “Il giardino della notte”, il dittico “Paesaggio viola” s’immergono in un’atmosfera panica, ancestrale, mentre le geometrie del piccolo “La misura del buio” tentano di organizzare la fluidità organica in un ordine mentale astratto, così come la centralità della sfera in “Come la luna”, anche se con parvenze di un cielo contemplato attraverso dei ramoscelli fatati. Una festa di colori danza in “Dream up, wake up” di Cetty, cromie che ritornano con diverse geometrie e rispondenze in “Piccola notte”, a tracciare equilibri come galleggianti nel mare mosso delle stesure cromatiche, mentre più apertamente è affrontato il tema notturno in “The night belong to lovers”, ove l’elemento naturale e l’elemento umano s’intrecciano, o nel grande “The black one”, in “Notte notte”, “L’altra notte”. Quadri che confermano una linea di ricerca che muove passi dall’esempio di Franco Sarnari e Piero Zuccaro, ancorata a questi “paesaggi scomposti” ormai caratteristici del lavoro di Cetty Previtera. Nel piccolo “Inverno, notte” si delineano più chiaramente elementi di paesaggio, un tronco pallido e spoglio, esile, tetti di case, ombre d’alberi. La natura è presentata in una dimensione magica, musicale, come in un mosaico, dove ogni colore risuona di echi e tintinnii del carillon della vita."
Alessandra Redaelli
"Ci sono artisti che raccontano storie: affabulatori sapienti capaci di ipnotizzarci regalandoci la realtà attraverso le loro parole dipinte o scolpite. Ci sono artisti che – ossessivamente – scelgono di raccontare se stessi, con un bisogno assoluto di autoreferenzialità che sembra gridare al mondo: “Amatemi!”. E poi ci sono artisti che attraverso se stessi e la propria faticosa esperienza quotidiana del vivere ci raccontano il mondo e, in qualche modo, ci raccontano anche noi stessi. Stefania Orrù appartiene alla terza categoria. Il suo racconto si dispiega limpido, splendente e tuttavia complesso, faticoso, sofferto, opera dopo opera, ritratto dopo ritratto. Limpido perché ci arriva dentro subito, al primo sguardo: ci ipnotizza e ci inchioda alla nostra responsabilità. Vi leggiamo dentro un senso di assolutezza e di verità che ci lascia felici e stupefatti.
Sofferto perché, una volta che ci ha agganciati inesorabilmente, ci accorgiamo che la lettura è tutt’altro che semplice. Come se noi rivivessimo, nel fruirlo e nel farlo nostro, il processo lungo e complesso che l’artista ha vissuto nel crearlo. Come se tra noi e lei si instaurasse un transfert paragonabile a quello che si viene a creare nella relazione psicanalitica. Stefania Orrù è una donna e un’artista intensa. Una bella ragazza dai lineamenti morbidi e regolari che contiene in sé una saggezza antica e primordiale. E’ vero che ha fatto scelte autonome molto precocemente, nella vita. E’ vero che ha deciso di prendere in mano la sua esistenza e di seguire le proprie passioni quando era poco più che una ragazzina, ma il suo approccio verso il mondo lascia comunque spiazzati. Prima ancora che il tema “caldo” del suo lavoro venga affrontato, già si avverte la sensazione di essersi addentrati in un terreno denso e complesso. Abituata a restare a lungo con se stessa, ha maturato uno sguardo sulla realtà al tempo stesso distaccato e profondissimo, mai cinico, attento e amorevole, capace di sorprendersi e di sospendere il giudizio – in attesa di capire – come è proprio dei saggi. E’ la sorella grande che vorresti aver avuto vicino e nello stesso tempo ti viene voglia di proteggerla dalle brutture della vita, troppo caotica e sporca per un’anima luminosa come la sua. Luminosa, appunto. Ecco che si arriva a toccare il nucleo del suo lavoro. Che non è un “lavoro” come comunemente si intende quando si parla del percorso di un artista, composto di serie, evoluzioni, momenti chiave, ripensamenti, fasi di stallo, soluzioni improvvise. Ovvero, certamente tutto questo c’è stato e c’è, nella storia di Stefania Orrù, ma quello che vi si legge al di là di tutto, nitido e implacabile, è un cammino. Stefania ha intrapreso questo cammino quando per la prima volta ha cominciato a maneggiare l’arte, quando ha incontrato la gioia fisica della materia ruvida e degli intonaci, e da quello non si è mai distratta, decisa ad arrivare ad un punto molto preciso: la verità. Un cammino spirituale prima ancora che artistico. Un’esigenza interiore irrinunciabile che lei è riuscita a trasformare in qualcosa da condividere con il mondo. E questa condivisione è, anche per noi, un’esperienza spirituale ed emotiva, prima di tutto il resto. La prima volta che ho visto dal vivo i lavori di Stefania, non la conoscevo ancora. Le fotografie mi avevano già molto incuriosita, ma per quanto potessero essere degli ottimi scatti, non avevo la più pallida idea di quale potenza deflagrante contenessero quei visi visti dal vivo. Avevo letto anche dei testi, su di lei, ero rimasta affascinata dalla sua storia. Ma nulla mia aveva preparato alla sensazione che avrei provato. Una sua personale era stata allestita al museo dell’Opera del Duomo di Prato e i suoi visi si spalancavano improvvisi, assertivi, assoluti, sotto le volte affrescate. Non c’era soluzione di continuità nella poesia mistica di quei luoghi. La materia scabra, spaccata, ruvida dalla quale il volto emergeva in un trionfo di luce pareva sostanziarsi della stessa pietra su cui si affacciavano le immagini dei santi e delle madonne. Il volto i cui capelli si alzavano nel vento come una fiammata, era quello di una fanciulla senza tempo, forse una compagna di giochi di quelle che erano passate per quelle sale mentre venivano affrescate. Non conoscevo ancora la storia di questi lavori, dicevo, eppure la loro intensità immediata mi aveva colpita al cuore. Mi guardavano negli occhi, cercavano proprio me, e quello che mi portavano era un messaggio di luminosa serenità; anime che parlavano alla mia anima. Poi ho conosciuto Stefania, e quella che era rimasta solo poco più che una sensazione, si era fatta certezza: tutti quei visi, tutti quei profili, tutti quegli occhi che si fissavano nei miei e anche quelli che, pudicamente, abbassavano le palpebre, erano lei. Lei era la musa di se stessa, il suo territorio privilegiato di analisi. Non aveva bisogno d’altro: aveva preso il viso che le era più famigliare e più facile da raggiungere – il proprio – e ne aveva fatto il mezzo per raccontare il mondo. Il suo e quello degli altri. Non è raro che le artiste – in particolare proprio le artiste donne – scelgano come mezzo l’autoritratto. La donna viene da millenni di segregazione, viene da ruoli di accudimento e solitudine. All’uomo la guerra e il sociale, alla donna la famiglia. I decenni – perché di questo si tratta – di autoconsapevolezza che la donna ha alle spalle non le sono ancora bastati perché decida di rivolgere lo sguardo esplicitamente all’esterno. E poi naturalmente non è solo quello. La donna “è” dentro: è madre e quindi utero, e con questo utero intrattiene una comunicazione che va molto più in profondità delle parole. Ma, di solito, quando la donna artista si racconta attraverso l’autoritratto lo fa strutturando narrazioni emotive, racconta le sue frustrazioni e le sue gioie, le sue insicurezze e i suoi trionfi, il suo corpo, l’amore, l’erotismo, la sofferenza, la malattia. Gli “autoritratti” di Stefania Orrù (e in questo caso le virgolette sono d’obbligo, perché non si possono effettivamente definire tali) sono invece di una specie totalmente originale. Quel viso, e poi quel corpo, sono solo forma: un pretesto per parlare dell’essere come umano in quanto essere umano. La storia che ci racconta assomiglia per molti versi al mito, perché è una storia primordiale di ordine e caos, una storia di creazione e di nascita. Un venire al mondo – anzi, più che mai, in questo caso, un venire alla luce – lento e sofferto come le doglie di un parto. E la materia che Stefania ha scelto, la sua materia dura, scabra, polverosa, così paradossalmente in contrasto con tutta quella luce splendente, è inscindibile dal messaggio che ci racconta. E’ una sintesi perfetta tra tecniche antiche e moderne, la sua, che al primo sguardo fa irresistibilmente pensare alla consistenza ruvida e pietrosa dell’affresco. Un impasto di scagliola e polvere di marmo steso sulla tela, a sua volta appoggiata sulla tavola, in strati sempre più sottili, sapendo già quale sarà la struttura di base del dipinto e procedendo in base a quella a costruire le zone di luce e quelle di buio, stemperando i contorni, creando nebulose, graffi, spaccature. E poi, di nuovo, rifinendo ancora con il pennello, con la spatola, con la lametta. Un lavoro lungo che presuppone una serie quasi infinita di passaggi intervallati da lunghe soste, con le opere che procedono in parallelo e poi restano lì, insieme all’artista, come ospiti seri e curiosi. “Quando sono in studio, con le opere in lavorazione tutte intorno a me, ho come la sensazione che mi guardino”, dice l’artista. Ed è una sensazione che lo spettatore capisce al volo perché quella materia in cui vorticano vampate di luce e abissi di buio è una materia viva, mobile e risucchiante. Una materia che non perdona. E mentre il cammino di Stefania procede inesorabile verso la verità, ecco che lentissimamente i soggetti dei suoi lavori vivono un cambiamento. Se prima erano soprattutto primi piani suggestivi e assertivi come icone, dove la forma si sostanziava in coaguli di materia della quale si perdevano i contorni, le opere in mostra oggi rappresentano un nuovo tratto di strada. In un movimento lento e millenario, come la deriva dei continenti, luce e oscurità vanno separandosi. Sono due principi antitetici, affermazione e negazione, non necessariamente bene e male: non è questo il messaggio che l’artista vuole darci, ma perché vi sia nascita ci deve essere distinzione, separazione. Ecco allora che la luce si condensa in una forma sempre più leggibile e netta, mentre il buio le si addensa intorno, profondo e insondabile come forse prima non era mai stato. Il pulviscolo che circonda i visi e i corpi come se fosse una scia di cometa suggerisce il movimento, la spinta inarrestabile verso uno scopo, l’energia a lungo rappresa e che proprio in quel momento sta esplodendo. Il taglio dell’inquadratura ci sorprende nella sua originalità, con le figure che sembrano librarsi in volo, rette e condotte da quell’energia. A volte sono angeli guerrieri, o sante pagane, avvolte in drappi che le imprigionano, ma ancora solo per un momento, perché il gesto è quello della liberazione, ed è così evidente che viene quasi la voglia di allungare la mano e disfare quelle bende per accelerare il procedimento. Intorno al corpo – dalla spalla tonda e morbida, dalla candida schiena – il pulviscolo si mostra come una fiammata, come se i contorni stessero bruciando di luce incandescente, e in quella scia misteriosa avvertiamo quanto ogni nostro gesto, fino ogni nostro pensiero, sia inestricabilmente legato a tutto ciò che ci circonda. Non c’è interruzione tra il corpo e la materia dalla quale è scaturito, così come non c’è interruzione tra noi e l’altro, il mondo, la natura, il cielo, Dio. Più definite rispetto ai primi piani di qualche tempo fa, queste figure sono dettagliate nei particolari del viso, appaiono volumi pieni, concreti, mentre il panneggio – candida luce scintillante come una distesa di neve – si annoda in pieghe fitte e morbide che disegnano il corpo. Eppure, a differenza dei visi (volti?) che vengono prima di loro, sembra che possa bastare un niente a disgregarle, come se il solo allungare una mano ci permettesse di disperderle di nuovo nel buio da cui provengono. La fascinazione è compiuta. La sensazione che questo essere, questa entità dalle belle fattezze femminili che rappresenta tutti noi, sia venuta al mondo l’abbiamo nelle opere in cui lo sfondo comincia a concretizzarsi. Appare una divisione, seppure vaga, tra terra e cielo. Come nella creazione. La figura non sembra più librarsi nel nulla, ma è posata a terra. Magari sdraiata. Non dorme, ma non è neppure sveglia: è in quella fase intermedia che precede l’essere. E’, questa, forse la nascita dell’anima, che ci appare così, nuda e inerme, mentre il drappo che prima l’avvolgeva imprigionandola, si sta lentamente allontanando, disfacendo nel buio, prigione o placenta abbandonata. Oppure la figura è dritta, di spalle. Come se avesse già cominciato ad allontanarsi. I piedi ben piantati per terra. La nascita, dicevamo, è compiuta. E questa compiutezza, questa consapevolezza solare, la cogliamo nel grande volto che Stefania Orrù ci regala. Vicino, per iconografia, alle opere della serie precedente, se ne separa per una completezza che prima non poteva essere ancora raggiunta. Il volto non è più un aggregarsi di materia luminosa che si oppone al buio, ma è solo luce, pura luce. La luce viene oramai da dentro. E’ la luce della saggezza e della consapevolezza. La luce della verità raggiunta attraverso un percorso faticoso, ma al tempo stesso meraviglioso e irrinunciabile. E’ la verità. Stefania l’ha raggiunta e l’ha dipinta. Per noi."
Alessandra Frosini
"L’Essere, da sempre al centro della ricerca di Stefania Orrù, viene indagato con una pittura che racchiude, ermetica, distinte urgenze sentimentali. Non si tratta di un lirismo di superficie, utile solo a catturare lo sguardo, quanto di una sorta di riflessione che sa soffermarsi nel passaggio fra luce ed ombra e ritornare con spirito rasserenato al mondo dei sensi. E’ un’immersione meditativa nella luce, nel colore e nella forma attraverso una pittura potente e permeata di energie.
Stefania Orrù è un’artista che interpreta il contemporaneo attraverso il suo autentico mondo esistenziale e poetico, senza snaturarsi: in lei il concetto diventa materia e le opere trattengono e rimandano la luce dell’idea. Nelle sue opere c’è una profonda eco di estetiche vissute che arrivano ad annullare e dunque a sospendere l’idea di tempo, sovrapponendo trascorso e presente. Se osserviamo queste opere ci rendiamo conto di essere dentro ad una storia che parla di Stefania Orrù ma allo stesso tempo ci collega ad un universo di rimandi che affiora alla nostra mente attraverso un’immagine. Ad un primo sguardo può sembrare che queste immagini di donna (che sono quasi sempre autoritratti) siano portatrici principalmente di una mistica bellezza basata sull’equilibrio della composizione e il delicato dosaggio dell’elemento coloristico. Richiamando la tradizione greca, si potrebbe parlare di una bellezza che non è solo symmetría ma anche chróma, colore. Una bellezza perciò qualitativa, puntuale, che può manifestarsi anche in una semplice sensazione cromatica o in un lampo della luce: “La semplice bellezza di un colore è data da una forma che domina l’oscurità della materia, dalla presenza di una luce incorporea che altro non è che ragione e idea” secondo il pensiero di Plotino e che diventa, nel quadro della filosofia neoplatonica, quella luce che risplende sulla materia come riflesso dell’Uno da cui essa emana. Ma qui non siamo all’interno di un’ultima declinazione della mistica della luce, quanto di un’estetica della luce, che fa della Bellezza (insieme alla capacità evocativa) uno strumento conoscitivo. E la Bellezza, per essere strumento conoscitivo, ha bisogno del filtro di quella letteratura che pur nella grande varietà di accenti insiste sull’estetica della luce: gli echi letterari allora si intrecciano e rincorrono, da Dante, a Blake, a Rimbaud, da Leopardi, a Neruda e a Pasolini. Il suo universo poetico si esprime incisivo richiamando alla nostra memoria ancestrali icone: figure femminili frontali, sospese, situate dentro uno spazio annullato, vuoto in dissolvenza, in cui rimane visibile soltanto la figura, unico reale spazio sondabile. Il limpido classicismo dei soggetti, delle figure, dei volti rarefatti, dei profili, l’attenzione per il corpo che sottende rispetto e considerazione per l’individuo che si staglia in uno spazio immateriale ma reso palpabile da trasparenze e profondità materiche: i volti che ad un primo sguardo richiamavano la fissità dell’icona di matrice bizantina si sciolgono per mostrare la profondità effimera delle sensazioni, delle emozioni, dei sentimenti, coscienze che si palesano attraverso la pittura. L’equilibrio misurato e preciso delle composizioni si nutre anche dell’ombra che si mescola e si oppone ad una luce che si crea dal diafano, che viene dal profondo delle cose, che ne esprime l’infinita potenza. La realtà fenomenica è sempre in parte oscura e indecifrabile e perciò destinata a mescolare inevitabilmente ombra e luce, luce interiore, nucleo interno ed invisibile delle cose, eidos -essenza attraverso cui l’Essere si mostra. Da qui la necessità d’indagare, di scavare per indirizzare la riflessione, per soffermarsi, per capire. Quella a cui partecipiamo è una ricerca estetica che ritorna al simbolismo e alla figurazione, per esplorare l’invisibile e l’eterno. E l’idea del tempo in queste opere passa anche attraverso una tecnica sapiente, che respira il profumo del passato: antica e nuova allo stesso tempo, che mescola tradizione e innovazione e che nasce dall’esperienza sperimentata negli anni, dalla pratica col maestro Elvio Marchionni, dalla riflessione sui gesti e sulla materia. Il linguaggio artistico trova la sua concretezza ancorandosi nell’esperienza individuale e non ci si stupisce dunque di trovare nella Orrù un palese amore per la memoria e la storia (la lezione dei pittori del Quattrocento umbro mediata dal maestro),per la lavorazione della materia, appresa anche con la pratica dello strappo e del lavoro sulle superfici murarie, ma anche il confronto con i colori e le atmosfere naturali della sua terra, le Marche, e con l’Umbria vissuta durante gli anni di apprendistato artistico. Gli stessi colori che ritroviamo nelle vellutate scansioni delle cromie, dal rosa pallido, all’azzurro, al giallo ocra chiaro e al bianco perla, che caratterizzano la sua tavolozza e che si accendono di sfumature inaspettate per il forte moto dell’anima che li vivifica. Effetti realizzati grazie ad una sperimentazione elaborata e maturata attraverso la scelta di una tecnica mista che unisce affresco, tempera grassa ed encausto, per creare sovrapposizioni e velature impossibili altrimenti. Lo sfumare delle cose ammorbidisce il passaggio dalla luce all’ombra e la nitidezza che si perde nei contorni diventa impercettibile dissolvenza ma anche consapevolezza, per la Orrù, di avere fra le mani una materia viva e vitale, che subisce mutazioni, per effetto del suo operare. Le sfumature non sono solo morbide e delicate, ma creano un contrasto che non parla più della dolcezza della memoria o del ricordo, ma di un altrovedove i pensieri si addensano e consolidano in una materia fittamente elaborata, secondo un ductus espressivo preciso e meditato, che varia a seconda del risultato perseguito e rende la superficie a tratti densa e graffiata, a tratti lucida e levigata. Nelle opere frutto dell’ultima fase della sua ricerca troviamo grandi superfici elaborate, dove, in due campiture, viene spinta al massimo la suggestione delle trasparenze e la matericità dell’affresco. Le pose non sono più frontali, gli occhi si chiudono per concentrare ancor più la riflessione, i contrasti della materia si fanno più netti. La luce e il buio, intesi come luoghi psichici, come mondi attraversati e attraversabili dall’essere, sono colti attraverso giochi chiaroscurali portati all’estremo, dove i profili delle figure, i drappi, le mani, al tempo stesso forme reali e simboliche, si manifestano come chiavi di lettura che testimoniano l’essere stesso, intriso di contraddizioni, di territori oscuri e luminosi. Un realismo esistenziale che ricorda Ferroni o rimanda ad alcune reminiscenze alla Annigoni e che rivela una forte volontà di conoscenza della profondità umana. Un potente contrasto fra luce e ombra, ma allo stesso un dualismo che riesce ad armonizzarsi con una materia duttile e corposa, in alcuni tratti traslucida. Tanti sono i riflessi di cui brilla, lucidature della materia che si è riempita e quasi trabocca; in alcuni casi è il nero stesso, intenso e vibrante, che si accende grazie all’uso sapiente della cera. Sono figure inondate di luce, ma anche racchiuse nell’ombra. E l’ombra che è contemporaneamente assenza di luce e prova della sua presenza, offre un aiuto per la comprensione simbolica o realistica degli spazi e degli oggetti rappresentati e diventa perciò, simbolicamente, attesa e desiderio di luce anche spirituale. La vera conoscenza delle cose umane e del mondo è intimamente compresa e concentrata all’interno dell’ombra essenziale dei corpi solidi e rinchiusa e negata nei loro confini. Il soggetto, immerso in un complesso turbinio materico, non è più solo il centro di questa ultima produzione di Stefania Orrù, ma addensatasi questa materia in due grandi coaguli, uno chiaro, uno scuro, rappresenta ora la chiave di lettura di questi due opposti. Chiave di lettura ma anche protagonista, insieme alla luce e all’oscurità, di un gioco d’incastro o di sopraffazione e incanto, che sa restituire una straordinaria sensazione di Bellezza e di stupore contemplativo. La materia e la luce apparentemente in contrapposizione, si sostanziano in realtà l’una con l’altra: materia e luce, ma soprattutto materia e spirito. Ed il tempo rimane come sospeso: un tempo sincronico ed eterno che coinvolge lo spettatore in una seduzione che non è semplice seduzione dell’occhio, ma coinvolgimento profondo e meditato che necessita di una partecipazione impegnata, da scoprire lentamente. Questo effetto, voluto e creato dall’artista, richiama suggestioni lontane di penombra e sfumato, un’atmosfera cromatica e plastica che rimanda alla storia dell’arte, da Leonardo a Rubens, rielaborati e attualizzati in personali contesti emozionali. Il motore di questo viaggio, che con forti cariche centripete ci attira, è un’atmosfera rarefatta, una solitudine quasi irreale che è la stessa che ci portiamo dentro. Siamo noi davanti a noi stessi, uguali e sempre diversi, di fronte ad uno specchio che è anche ponte, punto di passaggio e collegamento fra il manifesto e il recondito. Quelli di Stefania Orrù non sono autoritratti-soliloqui che giocano sulle apparenze esteriori, ma immagini che portano in essere la propria essenza. Eidos, si diceva appunto, come mezzo attraverso cui giungere alla Verità, attraverso cui cercare se stessa (e noi stessi), per conoscersi e sapere fino in fondo cosa sta succedendo dentro e intorno a noi. E’ un viaggio dell’introspezione che ci invita a guardare oltre l’apparenza delle cose proprio grazie alla leggibilità della figurazione e del rimando simbolico. Seguendo la distinzione di Husserl fra Leib (inteso come corpo immediatamente vissuto, o «corpo che sono») e Körper (inteso come corpo-oggetto-involucro, mediato dall’autoriflessione, o «corpo che ho»), l’essenza si concretizza in figure che non sono ombre, né memorie di vita, ma presenze vitali, che si pongono come protagoniste delle pitture, figure evocate e presenti poste in sfondi indefiniti, vuoti in dissolvenza. Ci accorgiamo così che non si palesa solo il binomio fra luce e ombra e fra figure e spazio, ma anche fra dilatazione e concentrazione (del tempo, della materia), passato e presente, lontananza e prossimità, assenza e presenza e che il nostro sguardo è un involucro che contiene tutto e lo può annullare. La pittura di Stefania Orrù recupera il senso di una realtà che non si esaurisce in una semplice raffigurazione, ma diventa spunto e momento di riflessione per andare oltre: di fronte all’arte l’altrove è sempre contenuto nel qui."
Silvano Agosti
"L’incontro con i quadri di Stefania è simile a un passaggio di stagione, quando la natura vibra, protesa com’è verso una nuova rinascita o la propria morte, sia pure apparente. In realtà il percorso solito della contemplazione di un quadro, ovvero sguardo, pensiero, sentimento, con le opere pittoriche e i disegni di Stefania, si estende poco a poco a tutto il corpo dell’osservatore e la percezione di un suo modo esclusivo di rappresentare il mondo si espande, come se l’immagine del quadro fosse una proposta di anima rinnovata, capace di invadere ogni minimo spazio del corpo che la sta contemplando.
Così, di anima in anima, sempre e solo attraverso volti o corpi appena accennati, nello spettatore di queste dinamiche immobili, ma non ferme o anche di queste fissità attonite ma mai assenti, lo sfilare lento nella memoria dei quadri di Stefania Orru, diviene un vero e proprio popolo in cammino, alla ricerca di un’identità perduta. Vien voglia di toccarli, o almeno di sfiorarli, questi volti che sembrano sfidare l’enigma della vita. Vien voglia di avvicinarsi alle labbra pulsanti delle sue donne, per avvertire il soffio tenue del respiro. Nulla di implorante negli sguardi pieni di dignità di un volto mille volte rappresentato nei suoi quadri, forse il volto stesso dell’Autrice, ma la denuncia del diritto a chiedere e sapere, in ogni modo, e con qualsiasi mezzo espressivo, cosa nasconda il mistero dell’essere. Lo stile narrativo di una prima fase espressiva di questa rara pittrice sta per raggiungere il suo punto più alto, la capacità di “narrare” un volto oltre che di rappresentarlo, quasi raggiungendo un risultato impossibile : un dipinto cioè che si rivela diverso ogni volta che lo si contempla e al tempo stesso la certezza, anche dopo innumerevoli incontri, di vederlo per la prima volta. Così, quando lo sguardo si congeda da un suo quadro, nasce il desiderio naturale di un nuovo incontro, come accade con i misteri dell’arte e anche, narra la letteratura, con i grandi sentimenti d’amore."
Antonio Sarnari
"È forse il gioco di un bambino quello del fare di Stefania Orrù, forse un gioco anche l’istinto che mi viene di toccare le sue opere materiche, a tratti sculture. È di certo un desiderio dell’io profondo, il ‘gustare’ l’opera con i polpastrelli, se non proprio abbracciandola per sentirne tutti i dettagli, ruvidi e primitivi. Questo perché la sintesi che l’autrice ha raggiunto, nella propria ricerca, prima di ogni altra cosa dialoga con il nostro corpo, narrando della nostra evoluzione antropologica. Le materie che diventano corpo e segno, con il paziente lavoro di Stefania Orrù, sono gli elementi essenziali dell’impasto, con cui l’essere vivente si è fatto essere pensante, altro dalla Natura d’origine. I grumi di quella poltiglia primordiale, amati dalle mani dell’autrice, diventano fondamenta delle prime ambizioni umane. Le pieghe e i solchi, tra i bollori della materia, sono l’emersione del progetto, segno e disegno dell’autonomia. Solo dopo giunge il bacio del colore, puntura prospettica e tepore pittorico, fondamentale a datare come contemporanea questa azione artistica.
Stefania Orrù ha una storia di saperi artigiani ed esperienze artistiche, nutrita di una profonda sensibilità personale, che le permettono un’invidiabile libertà nella ricerca. È così che il fascino dell’affresco, la pazienza di bottega, la pittura introspettiva, i linguaggi della scultura e dell’architettura, e persino l’informale contemporaneo sono frammenti di ogni suo lavoro. Il fascino di un soggetto, come forse dominava le prime pitture, cede al desiderio di costruire, modellare senza un preciso obiettivo. Probabilmente è questo il viaggio che Stefania ha intrapreso qualche anno fa, quando ha scelto di seguire la propria manualità e il proprio ‘senso di orientamento pittorico’, senza attendersi un preciso risultato dall’opera. Ha ampliato la visione linguistica ad altre possibili intersezioni, scambi, fascini. Nello stesso momento il proprio dizionario visivo è emerso in sintesi, in solchi e grumi, poi in punti li luce e colore. Questo processo di sintesi, per emersione della materia dal fondo, parte da un progetto pittorico elementare, un costrutto di linee e caselle, di geometrie colorate, di vuoto-pieno. Lì in fondo si può rintracciare l’origine del soggetto, il quale, come in un processo di erosione all’inverso, viene ricoperto di detriti, poi modellato, in parte riconosciuto in parte cancellato. Identità di questo linguaggio è la morfologia della materia aggiunta, che prende le sembianze del soggetto d’origine mentre l’autrice lo distrugge, lo copre, alienandone i caratteri distintivi. Fondamentale è quindi il processo di traduzione, che in questa ‘manipolazione-trasformativa’ crea una prospettiva epidermica e una sintesi identitaria. Un vero e proprio linguaggio di trasfigurazione, non scientifico ma empirico, non narrativo ma emozionale, allo stesso tempo complesso ed essenziale, così come appaiono oggi alcuni linguaggi d’arte primitiva, fatti di segni elementari, sfumature calcaree ed empatie materiche. Penso all’emozione che emanano le superfici di queste opere, come alla sensazione di estraniamento che provo appoggiando la schiena ad una colonna di un tempio, quando perdo la completezza della scena d’insieme dell’architettura, e avvicinandomi sento di essere dominato, fino ad essere fagocitato nel ventre del gigante. Solo la ruvidezza levigata della colonna e la percezione dell’immensità del frammento, con cui entro in relazione, mi restituisce un equilibrio con la creazione, parziale e autonoma allo stesso tempo. Ecco cosa mi viene in mente quando vedo le opere di Stefania Orrù, l’autonomia di un frammento, l’essenzialità di un segno, la nuova relazione con l’insieme. Le opere di Stefania Orrù hanno quindi una rilevanza linguistica sotto diversi aspetti, una bellezza primitiva, una progettualità riservata, una trama architettonica profonda e, per finire, sono sensibile sintesi della storia della pittura. È patrimonio primitivo e dunque essenziale, il lavoro di sottrazione della materia in eccesso che da forma al progetto architettonico. È progettualità riservata il procedere con manualità esperta, che tutto riempie di sapienza antica. È trama architettonica il nesso tra la manualità di bottega e la sensazione interiore dell’informale pittorico. Tutti insieme, questi aspetti, narrano di un viaggio lungo la storia della pittura, che va dall’arte primitiva all’arte concettuale. Un viaggio a ritroso, in cui l’autrice individua i segni geometrici colorati del soggetto, per poi edificarlo con l’impasto di marmo ma poi scava solchi ed erode la materia stessa. Un viaggio che infine termina nel matrimonio con la pittura, in cui il bacio di pigmenti naturali, in macchie appassionate di toni bizantini e giotteschi, sancisce la sublimazione dell’ingegneria in emozione. È sempre una grande responsabilità parlare di un’opera, in cui l’autore ha messo dentro tutto se stesso, con le proprie ragioni e le proprio emozioni, che spesso influenzano la sua stessa lucidità di giudizio. In queste opere l’emozione trasferita dall’autrice è tanta, ed è profondamente rispettosa delle leggi della Natura. È un’emozione umile com’è quella di chi indaga per amore, non per fare giustizia. È un’emozione saggia che contempla il fallimento e l’erosione del tempo. È ancora un’emozione raffinata, perché ricca di esperienze e di meditazione. Nelle opere di Stefania Orrù queste emozioni si fondono in una propria regola, di coerenza e rigore verso un alto senso della pittura. Queste emozioni che slanciano la ricerca e la regola che ne garantisce l’autenticità pittorica, sono un binomio di rara forza pittorica, nella ricerca e nella solidità di ogni lavoro. Sono anche una nuova relazione linguistica, che io definirei tra storia e sogno. Direi che Stefania Orrù danza con le sue opere un tango, dove la passione è mista di passione e spine, una rara miscela di storia e sogno. Poche relazioni sono più liriche in un’opera."